giovedì 20 settembre 2012

LA GRANDE MILANO



Il blog di CivicCityMonitor sta prendendo corpo; nuove segnalazioni arrivano da parte dei cittadini ed allo stesso tempo si rende necessario, sulla base di avvenimenti recenti e nuova documentazione, riaprire questioni già trattate, come quella del Seveso. Sto inoltre per riprendere un viaggio attraverso la città interrotto dalle vacanze estive: quello alla ricerca delle località maggiormente svantaggiate sotto il profilo dell’accesso ai servizi più indispensabili.

Nel frattempo il quadro politico generale è in ebollizione, la questione morale si pone con evidenza sempre maggiore all’interno del Paese e temi strategici relativi alla nostra città iniziano ad entrare nel linguaggio comune, come quello della “Grande Milano”. A tale proposito l’Assessore Benelli ha scritto recentemente:

Basta percorrere viale Monza verso Sesto San Giovanni per capire che la continuità del territorio urbano milanese va oltre i confini dei singoli comuni. Da anni si parla della Città metropolitana, ora, con il decreto appena approvato dal Governo, può diventare una realtà. Di cosa si tratta? Finalmente l’area milanese può diventare, come moltissime città europee, una grande metropoli integrata, di cui faranno parte anche gli abitanti di San Donato, Cinisello Balsamo, Trezzano sul Naviglio, eccetera. I Comuni continueranno a fornire ai cittadini i servizi di prossimità, mentre le decisioni per l’area vasta (trasporti, infrastrutture, ambiente, grandi investimenti, politiche per lo sviluppo e l’occupazione) spetteranno al governo metropolitano.
A questo traguardo stiamo lavorando da un anno. Non è più possibile pensare alle reti ferroviarie, ai metrò, all’inquinamento riferendosi solo a Milano. Con la Città metropolitana sarà possibile realizzare politiche condivise per 134 Comuni.
Il governo ha posto l’1 gennaio 2014 come data di nascita della Città metropolitana.. C’è ancora tanto da fare, anzitutto per migliorare il decreto del governo. Penso per esempio che per essere davvero forte e autorevole la Città metropolitana e il suo sindaco debbano essere eletti da tutti i cittadini del territorio interessato e non dai consiglieri dei comuni che ne fanno parte.  E ancora, si dovrebbe consentire alla Città metropolitana di organizzare  al suo interno i comuni, sia per accorpare quelli più piccoli, sia per articolare diversamente quelli più grandi, come Milano.
Dopo l’esito deludente del tanto decantato federalismo, dopo le tante regole, vincoli ( e tagli) ai comuni – sia parte dello Stato centrale sia da parte delle Regioni – perché non tornare a rivendicare l’autonomia e l’autogoverno delle comunità locali? (Corriere della Sera, 11 luglio).

Queste sono affermazioni che non possono non essere condivise, o lasciare indifferenti i cittadini; ma siamo tutti sicuri di avere le idee chiare in proposito? Detto in altri termini: è possibile affrontare questo progetto senza una preliminare “visione” di ciò che deve intendersi per “Grande Milano”? Ad esempio: si tratta di un provvedimento strettamente amministrativo, come per certi versi sono i cantoni o  le communautés de communes francesi? Oppure è qualcosa destinato ad incidere più profondamente nei modi e nella futura qualità della vita dei cittadini? 

Questo blog ha, tra gli altri, anche lo scopo di contribuire - ben inteso, nei limiti delle competenze di chi scrive - ad un dibattito aperto sui concetti cardine ai quali deve essere ancorata ogni politica per Milano; tra questi vi sono quelli di territorio, bene comune e qualità del vivere.  Non mi sembra perciò inutile concederci oggi  e nei post successivi (perché, come ognuno può vedere, non si tratta di questioni di poco conto) una breve pausa di riflessione su alcuni termini che a volte suonano scontati al punto da sembrare ovvi, o addirittura autoevidenti. Ad esempio, bene comune e qualità della vita si presentano alla nostra mente come una sorta di idee originarie o “primigenie”, che non occorre neppure spiegare, tanto esse appaiono “forti” ed immediate: se però riflettiamo per qualche attimo, ci rendiamo subito conto della difficoltà a definirne con precisione i contenuti. Non vi è tuttavia dubbio che esse storicamente siano state  sempre strettamente connesse tra loro, o meglio: che la seconda sia stata una conseguenza, o una sorta di funzione della prima. Tuttavia esse sono state impiegate in una moltitudine di accezioni diverse a seconda dei casi: sicché, In definitiva, non mi sembra un esercizio inutile interrogarsi  oggi sul loro significato.

Consideriamo perciò l’aggettivo ‘comune’. Esso sottintende una pluralità di soggetti, e del resto la nozione di bene comune è di fatto incompatibile con la condizione di eremiti, stiliti o quanti altri si collocano deliberatamente al di fuori del consorzio umano. Nella sua accezione più debole, tale pluralità si identifica con un collettivo, un insieme di individui che condividono alcuni attributi, quali la specie o l’etnia o altri aspetti minori, oltre ad una caratteristica fondamentale: un determinato contesto fisico, uno spazio o meglio una porzione di territorio. Il territorio pertanto interviene sin dall’inizio come componente primigenia ed essenziale nella formazione delle due nozioni che in questa sede vengono discusse (avverto sin d’ora che con il termine ‘territorio’ intendo non solo le caratteristiche geo-fisiche e paesaggistiche di una assegnata porzione di superficie terrestre; ma anche tutte le risorse di superficie e sotterranee, nonché il complesso di condizioni climatiche che lo caratterizzano).  

 E’ possibile parlare di bene comune per un semplice collettivo? A mio giudizio la risposta deve essere senz’altro negativa. Perché questa nozione sia applicabile occorre essere in presenza di aggregazioni di soggetti assai più complesse, per le quali la condivisione non si limiti al genere di attributi sopra richiamati; ma includa elementi più profondi, che investono l’area della soggettività e della coscienza. Questo salto nella catena associativa è rappresentato dalla comunità, alla cui base troviamo due connettivi di genere immateriale, che sono sovente trascurati e viceversa giocano un ruolo fondamentale. Alludo, da un lato, alla presenza di uno, o più scopi che i componenti di un siffatto insieme accettano esplicitamente o meno di fare propri; dall’altro, alla presenza di un sapere, o savoir faire, distribuito e  partecipato.

La contrapposizione tra collettivo e comunità si traduce nel nostro caso in quella tra residenti / abitanti e cittadini. I primi condividono la condizione contingente di trovarsi in un medesimo ambito territoriale; i secondi qualcosa di più complesso, che occorre analizzare con attenzione.

La storia dell’ominazione (dai nostri lontanissimi progenitori arboricoli sino all’Homo sapiens) - così come ha iniziato ad essere riscritta a partire dalle ricerche di Louis e Mary Leakey a Olduvai - fornisce a mio modo di vedere un sostegno potente alla tesi precedente. L’abbondanza di resti fossili di fauna nel celebre sito testimonia la presenza non già di individui isolati; bensì di gruppi accomunati dallo scopo della sopravvivenza e da una specifica tecnologia (choppers). Questo antichissimo oggetto proveniente da Olduvai risale ad oltre 1.8 milioni di anni fa, e mostra d’essere stato deliberatamente scheggiato per trasformarsi in utensile:

                                                                   British Museum


Per inciso, gli ultimi cinquant'anni hanno gettato una luce decisiva sulla storia dell'ominazione. Unico tra i primati ad abbandonare definitivamente la vita arboricola per la savana, e per questo costretto alla posizione eretta in modo permanente, e non saltuario come altri mammiferi, l'uomo ha in tal modo liberato la mano, la sola tra i primati a disporre di un pollice opponibile, dalla schiavitù della deambulazione. La mano in tal modo è divenuta innanzi tutto strumento impareggiabile, grazie alla possibilità di una presa di precisione, e successivamente si è inscritta nella coscienza come una sorta di archetipo: ne sono una prova le numerose impronte di mani rinvenibili in grotte neolitiche.


                                          dalla Grotta du Peche Merle (Lot, Francia): la mano

Per riprendere il filo del discorso, è pertanto possibile ritrovare una traccia di “bene comune” sin dalle origini dell’uomo, comprendente non solo beni materiali per il sostentamento (le prede catturate dai cacciatori; i frutti, le radici e le bacche trovati dai raccoglitori) e beni materiali strumentali (choppers);  ma anche componenti immateriali, quali la tecnologia incorporata negli strumenti e l’obiettivo condiviso della sopravvivenza. A questi va aggiunto naturalmente il territorio, che ora diventa una componente esplicita del bene comune, e come tale deve essere difeso dalle belve, dagli intrusi o da attacchi ostili da parte di altre comunità; o piuttosto abbandonato, quando le sue risorse si siano esaurite (questo spiega, per inciso, perché i nostri antenati siano stati nomadi per un arco di tempo lunghissimo, e solo in tempi relativamente recentissimi si siano radicati ad un territorio specifico, dando in tal modo origine a villaggi e città).


La nozione di bene comune si prospetta pertanto come non banale a decorrere dall’alba dell’umanità. Le componenti immateriali giocano un ruolo essenziale sin dall’inizio: infatti, come viene meno uno scopo condiviso, la comunità si scioglie o degenera in gruppi contrapposti in conflitto tra loro. A tali contenuti immateriali via via se ne aggiungono altri, come i sistemi di patti e di regole che definiscono i ruoli dei membri della comunità ed rapporti tra questi ultimi. 

E’ inoltre possibile scorgere sin dalle origini il legame tra bene comune e qualità del vivere. La transizione dal nostro antenato isolato ed inerme nelle savane africane alla comunità organizzata attorno ad un nucleo di bene comune degli individui di Olduvai con tutta probabilità porta infatti come conseguenza migliori possibilità di sopravvivere, e dunque consente un balzo innanzi nella qualità e nei modi della vita quotidiana. Non si tratta semplicemente di una maggiore, o più regolare disponibilità di cibo; i rapporti di solidarietà sono uno strumento potente per difendersi dall’angoscia di un “di fuori” ostile e minaccioso.

Lo schema seguente riassume le differenze tra collettivo e comunità. Nel primo caso abbiamo un unico piano, o livello, costituito da un insieme di individui che condividono un determinato territorio nonché una – o più caratteristiche – con diverse intensità qui simbolizzate dalle diverse gradazioni lungo la scala del colore azzurro. Nel secondo caso gli stessi sono legati da un insieme di relazioni (e dunque la comunità è tecnicamente un insieme dotato di struttura), ed inoltre si aggiunge un livello, una sorta di “sfondo” costituito dal bene comune nelle sue articolazioni.


Lo schema a destra suggerisce una considerazione, che riguarda un’altra sorta di idea "primigenia": quella di valore. Essa ingloba due ambiti distinti, ancorché tra loro connessi: il valore del territorio da un lato (si lascia una regione “povera” in cerca di una più “ricca”); il valore del sapere dall’altro, in specie quello di natura tecnico strumentale (destinato in seguito a dare vita a veri e propri processi produttivi). Questa divaricazione mai ricomposta in sede teorica, certamente presente in forma intuitiva alla mente dei nostri lontani antenati, ha seguito un lungo percorso, a volte sotterraneo, per assumere una evidenza drammatica soltanto ai nostri giorni. Si osservi, per inciso, che nell’uno e nell’altro caso è implicita una idea di utilità (individuale / collettiva: un’altra divaricazione!); inoltre quest’ultima è una idea per così dire “direzionale”, nel senso che non si dà una utilità se non rivolta ad un fine, o ad uno scopo: col che siamo tornati al punto di partenza.

Man mano che l’uomo ha appreso a servirsi di ciò che “sta per altro da sé”, vale a dire di simboli, l’area dei beni immateriali si è progressivamente arricchita; del resto è difficile sottrarsi all’impressione di una ricerca di “bellezza” in questa misteriosa raffigurazione rupestre, proveniente dalle Grotte di Lascaux, dove le sequenze di segni sono per lo più interpretate come rappresentazione simbolica delle fasi lunari:



“Benissimo, ma … tutto questo cosa ha a che vedere con la Grande Milano?” Domanda legittima, alla quale non posso fare altro che rispondere invocando un attimo di pazienza. Ne riparliamo al prossimo post.

Milano 20 settembre 2012                                          Claudio Conti


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