Il blog di CivicCityMonitor sta
prendendo corpo; nuove segnalazioni arrivano da parte dei cittadini ed allo
stesso tempo si rende necessario, sulla base di avvenimenti recenti e nuova
documentazione, riaprire questioni già trattate, come quella del Seveso. Sto
inoltre per riprendere un viaggio attraverso la città interrotto dalle vacanze
estive: quello alla ricerca delle località maggiormente svantaggiate sotto il
profilo dell’accesso ai servizi più indispensabili.
Nel frattempo il quadro politico
generale è in ebollizione, la questione morale si pone con evidenza sempre
maggiore all’interno del Paese e temi strategici relativi alla nostra città
iniziano ad entrare nel linguaggio comune, come quello della “Grande Milano”. A
tale proposito l’Assessore Benelli ha scritto recentemente:
Basta
percorrere viale Monza verso Sesto San Giovanni per capire che la continuità
del territorio urbano milanese va oltre i confini dei singoli comuni. Da anni
si parla della Città metropolitana, ora, con il decreto appena approvato dal
Governo, può diventare una realtà. Di cosa si tratta? Finalmente l’area
milanese può diventare, come moltissime città europee, una grande metropoli
integrata, di cui faranno parte anche gli abitanti di San Donato, Cinisello
Balsamo, Trezzano sul Naviglio, eccetera. I Comuni continueranno a fornire ai
cittadini i servizi di prossimità, mentre le decisioni per l’area vasta
(trasporti, infrastrutture, ambiente, grandi investimenti, politiche per lo
sviluppo e l’occupazione) spetteranno al governo metropolitano.
A questo traguardo stiamo lavorando da un
anno. Non è più possibile pensare alle reti ferroviarie, ai metrò,
all’inquinamento riferendosi solo a Milano. Con la Città metropolitana sarà
possibile realizzare politiche condivise per 134 Comuni.
Il governo ha posto l’1 gennaio 2014 come
data di nascita della Città metropolitana.. C’è ancora tanto da fare, anzitutto
per migliorare il decreto del governo. Penso per esempio che per essere davvero
forte e autorevole la Città metropolitana e il suo sindaco debbano essere
eletti da tutti i cittadini del territorio interessato e non dai consiglieri
dei comuni che ne fanno parte. E ancora, si dovrebbe consentire alla
Città metropolitana di organizzare al suo interno i comuni, sia per
accorpare quelli più piccoli, sia per articolare diversamente quelli più
grandi, come Milano.
Dopo l’esito deludente del tanto decantato
federalismo, dopo le tante regole, vincoli ( e tagli) ai comuni – sia parte
dello Stato centrale sia da parte delle Regioni – perché non tornare a
rivendicare l’autonomia e l’autogoverno delle comunità locali? (Corriere
della Sera, 11 luglio).
Queste sono affermazioni che non
possono non essere condivise, o lasciare indifferenti i cittadini; ma siamo tutti sicuri di
avere le idee chiare in proposito? Detto in altri termini: è possibile
affrontare questo progetto senza una preliminare “visione” di ciò che deve
intendersi per “Grande Milano”? Ad esempio: si tratta di un provvedimento
strettamente amministrativo, come per certi versi sono i cantoni o le communautés
de communes francesi? Oppure è qualcosa destinato ad incidere più
profondamente nei modi e nella futura qualità della vita dei cittadini?
Questo blog ha, tra gli altri,
anche lo scopo di contribuire - ben inteso, nei limiti delle competenze di chi scrive - ad un dibattito aperto sui concetti cardine ai
quali deve essere ancorata ogni politica per Milano; tra questi vi sono quelli
di territorio,
bene comune e qualità del vivere. Non mi sembra perciò inutile concederci oggi e nei post successivi (perché, come ognuno può
vedere, non si tratta di questioni di poco conto) una breve pausa di riflessione
su alcuni termini che a volte suonano scontati al punto da sembrare ovvi, o addirittura
autoevidenti. Ad esempio, bene comune e qualità della vita si presentano alla
nostra mente come una sorta di idee originarie o “primigenie”, che non occorre neppure
spiegare, tanto esse appaiono “forti” ed immediate: se però riflettiamo per
qualche attimo, ci rendiamo subito conto della difficoltà a definirne con
precisione i contenuti. Non vi è tuttavia dubbio che esse storicamente siano
state sempre strettamente connesse tra
loro, o meglio: che la seconda sia stata una conseguenza, o una sorta di
funzione della prima. Tuttavia esse sono state impiegate in una moltitudine di
accezioni diverse a seconda dei casi: sicché, In definitiva, non mi sembra un esercizio
inutile interrogarsi oggi sul loro
significato.
Consideriamo perciò l’aggettivo
‘comune’. Esso sottintende una pluralità di soggetti, e del resto la nozione di
bene comune è di fatto incompatibile con la condizione di eremiti, stiliti o
quanti altri si collocano deliberatamente al di fuori del consorzio umano.
Nella sua accezione più debole, tale pluralità si identifica con un collettivo,
un insieme di individui che condividono alcuni attributi, quali la specie o
l’etnia o altri aspetti minori, oltre ad una caratteristica fondamentale: un
determinato contesto fisico, uno spazio o meglio una porzione di territorio.
Il territorio pertanto interviene sin dall’inizio come componente primigenia ed
essenziale nella formazione delle due nozioni che in questa sede vengono
discusse (avverto sin d’ora che con il termine ‘territorio’ intendo non solo le
caratteristiche geo-fisiche e paesaggistiche di una assegnata porzione di
superficie terrestre; ma anche tutte le risorse di superficie e sotterranee,
nonché il complesso di condizioni climatiche che lo caratterizzano).
E’ possibile parlare di bene
comune per un semplice collettivo? A mio giudizio la risposta deve essere
senz’altro negativa. Perché questa nozione sia applicabile occorre essere in
presenza di aggregazioni di soggetti assai più complesse, per le quali la
condivisione non si limiti al genere di attributi sopra richiamati; ma includa
elementi più profondi, che investono l’area della soggettività e della
coscienza. Questo salto nella catena associativa è rappresentato dalla comunità,
alla cui base troviamo due connettivi di genere immateriale, che sono sovente
trascurati e viceversa giocano un ruolo fondamentale. Alludo, da un lato, alla
presenza di uno, o più scopi che i componenti di un
siffatto insieme accettano esplicitamente o meno di fare propri; dall’altro,
alla presenza di un sapere, o savoir faire,
distribuito e partecipato.
La storia dell’ominazione (dai
nostri lontanissimi progenitori arboricoli sino all’Homo sapiens) - così come
ha iniziato ad essere riscritta a partire dalle ricerche di Louis e Mary Leakey
a Olduvai - fornisce a mio modo di vedere un sostegno potente alla tesi
precedente. L’abbondanza di resti fossili di fauna nel celebre sito testimonia
la presenza non già di individui isolati; bensì di gruppi accomunati dallo
scopo della sopravvivenza e da una specifica tecnologia (choppers). Questo antichissimo oggetto proveniente da Olduvai
risale ad oltre 1.8 milioni di anni fa, e mostra d’essere stato deliberatamente
scheggiato per trasformarsi in utensile:
British Museum
Per inciso, gli ultimi
cinquant'anni hanno gettato una luce decisiva sulla storia dell'ominazione.
Unico tra i primati ad abbandonare definitivamente la vita arboricola per la savana,
e per questo costretto alla posizione eretta in modo permanente, e non
saltuario come altri mammiferi, l'uomo ha in tal modo liberato la mano, la sola tra i primati a disporre
di un pollice opponibile, dalla schiavitù della deambulazione. La mano in tal
modo è divenuta innanzi tutto strumento impareggiabile, grazie alla possibilità
di una presa di precisione, e successivamente si è inscritta nella
coscienza come una sorta di archetipo: ne sono una prova le numerose impronte
di mani rinvenibili in grotte neolitiche.
dalla Grotta du Peche Merle (Lot,
Francia): la mano
Per riprendere il filo del
discorso, è pertanto possibile ritrovare una traccia di “bene comune” sin dalle
origini dell’uomo, comprendente non solo beni materiali per il sostentamento
(le prede catturate dai cacciatori; i frutti, le radici e le bacche trovati dai
raccoglitori) e beni materiali strumentali (choppers); ma anche componenti immateriali, quali la
tecnologia incorporata negli strumenti e l’obiettivo condiviso della
sopravvivenza. A questi va aggiunto naturalmente il territorio, che ora diventa
una componente esplicita del bene comune, e come tale deve essere difeso dalle
belve, dagli intrusi o da attacchi ostili da parte di altre comunità; o
piuttosto abbandonato, quando le sue risorse si siano esaurite (questo spiega,
per inciso, perché i nostri antenati siano stati nomadi per un arco di tempo
lunghissimo, e solo in tempi relativamente recentissimi si siano radicati ad un
territorio specifico, dando in tal modo origine a villaggi e città).
La nozione di bene comune si
prospetta pertanto come non banale a decorrere dall’alba dell’umanità. Le
componenti immateriali giocano un ruolo essenziale sin dall’inizio: infatti,
come viene meno uno scopo condiviso, la comunità si scioglie o degenera in
gruppi contrapposti in conflitto tra loro. A tali contenuti immateriali via via
se ne aggiungono altri, come i sistemi di patti e di regole che definiscono i
ruoli dei membri della comunità ed rapporti tra questi ultimi.
E’ inoltre possibile scorgere sin
dalle origini il legame tra bene comune e qualità del vivere. La transizione
dal nostro antenato isolato ed inerme nelle savane africane alla comunità
organizzata attorno ad un nucleo di bene comune degli individui di Olduvai con
tutta probabilità porta infatti come conseguenza migliori possibilità di
sopravvivere, e dunque consente un balzo innanzi nella qualità e nei modi della
vita quotidiana. Non si tratta semplicemente di una maggiore, o più regolare
disponibilità di cibo; i rapporti di solidarietà sono uno strumento potente per
difendersi dall’angoscia di un “di fuori” ostile e minaccioso.
Lo schema seguente riassume le
differenze tra collettivo e comunità. Nel primo caso abbiamo un unico piano, o
livello, costituito da un insieme di individui che condividono un determinato
territorio nonché una – o più caratteristiche – con diverse intensità qui
simbolizzate dalle diverse gradazioni lungo la scala del colore azzurro. Nel
secondo caso gli stessi sono legati da un insieme di relazioni (e dunque la
comunità è tecnicamente un insieme dotato di struttura), ed inoltre si aggiunge
un livello, una sorta di “sfondo” costituito dal bene comune nelle sue
articolazioni.
Lo schema a destra suggerisce una
considerazione, che riguarda un’altra sorta di idea "primigenia": quella di valore. Essa ingloba due ambiti
distinti, ancorché tra loro connessi: il
valore del territorio da un lato (si lascia una regione “povera” in cerca
di una più “ricca”); il valore del sapere
dall’altro, in specie quello di natura tecnico strumentale (destinato in
seguito a dare vita a veri e propri processi produttivi). Questa divaricazione
mai ricomposta in sede teorica, certamente presente in forma intuitiva alla
mente dei nostri lontani antenati, ha seguito un lungo percorso, a volte
sotterraneo, per assumere una evidenza drammatica soltanto ai nostri giorni. Si
osservi, per inciso, che nell’uno e nell’altro caso è implicita una idea di utilità
(individuale / collettiva: un’altra divaricazione!); inoltre quest’ultima è una
idea per così dire “direzionale”, nel senso che non si dà una utilità se non
rivolta ad un fine, o ad uno scopo: col che siamo tornati al punto di partenza.
Man mano che l’uomo ha appreso a
servirsi di ciò che “sta per altro da sé”, vale a dire di simboli, l’area dei
beni immateriali si è progressivamente arricchita; del resto è difficile
sottrarsi all’impressione di una ricerca di “bellezza” in questa misteriosa
raffigurazione rupestre, proveniente dalle Grotte di Lascaux, dove le sequenze
di segni sono per lo più interpretate come rappresentazione simbolica delle
fasi lunari:
“Benissimo, ma … tutto questo
cosa ha a che vedere con la Grande Milano?” Domanda legittima, alla quale non
posso fare altro che rispondere invocando un attimo di pazienza. Ne riparliamo
al prossimo post.
Milano 20 settembre 2012 Claudio Conti
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